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Giudicato esterno, diritto eurounitario e fattispecie pluriennali

30/07/2020 tribliguria No comments

Dalla Corte di Giustizia una indicazione equilibrata per la sistemazione definitiva di un delicato busillis (note a prima lettura di Corte giust.,16 luglio 2020, C-424/2019)

— articolo scritto dal Presidente  CAT Liguria,  prof. Alberto Marcheselli , per giustiziainsieme.it >

La sentenza 424/2019, Cabinet de avocat UR, offre una occasione assai preziosa.

Quella di dare una sistemazione concettuale ponderata ed equilibrata a un tema che da tempo agita il sonno dei giuristi, quello della portata del giudicato esterno in materia tributaria (e, più, in generale, sui rapporti di durata).

Anticipando immediatamente la modesta conclusione di queste riflessioni, a me pare che la Corte, con molta chiarezza, affermi che, se è consentita la celia, come per Jessica Rabbit, il problema del giudicato esterno non è “lui”, ma “come viene disegnato”.

Più seriamente, si legge, in filigrana, ma nettamente, nelle parole della Corte, che il problema sta non nell’istituto in sé, ma in alcune possibili configurazioni del relativo concetto.

Alcune configurazioni, che, anticipiamo subito, sono veri e propri “slittamenti dogmatici” da evitare e stigmatizzare.

Procedendo comunque con ordine, cominciamo con il rilevare, perché non sarà assolutamente inutile, che la regola del giudicato è il risultato del compromesso tra due valori ed esigenze: quello della accuratezza della decisione (che spingerebbe verso giudizi infiniti) e quello della certezza e dell’uso ragionevole della risorsa scarsa della giustizia (che impone concentrazione).

Il punto di equilibrio, per il diritto interno e quello eurounitario, è stabilire che, esaurita una certa serie processuale, la soluzione di una “questione” non può più essere messa in discussione.

Sul piano oggettivo, il problema sta tutto nello stabilire la portata del termine, volutamente improprio, appena usato: “questione”.

Sul piano soggettivo, il problema è stabilire chi non possa più discutere (il limite soggettivo). Questo secondo aspetto non è toccato dalla sentenza, ma ha cospicui aspetti di attualità nel diritto tributario, cui dedichiamo un cenno en passant (ad esempio in materia societaria): l’estensione soggettiva va prudentemente valutata, per il rischio di estendere gli effetti a soggetti che non hanno potuto esplicare le loro difese (non a caso il codice civile limita l’effetto del giudicato a “parti, eredi e aventi causa”, da intendere rigorosamente, proprio per il problema del rispetto del diritto di azione e difesa).

Orbene, tornando al punto, in realtà la portata oggettiva del giudicato ha alcuni caposaldi nitidi e chiari.

Il giudicato copre l’oggetto della singola controversia, cioè la soluzione data alla fattispecie oggetto del giudizio. È allora assolutamente decisivo (e sufficiente, in realtà), individuare questa ultima. Essa si esaurisce, per utilizzare la terminologia tradizionale civilistica, nel petitum e causa petendi in concreto. In materia tributaria l’oggetto del giudizio è, di regola, una certa pretesa a titolo di tributo, fondata su certi fatti (costitutivi, direbbero i civilisti), cui debbono essere applicate certe norme.

Ebbene, individuare tale fatto costitutivo è, in realtà, sempre piuttosto semplice. Si tratta del fatto espressione di capacità contributiva da tassare.

Il problema, endemico nel diritto tributario (e causa delle incertezze concettuali cui la Corte risponde) sta nella presenza, usuale, frequentissima, di fattispecie durevoli, anzi, più esattamente, di fattispecie periodiche. Detto altrimenti, la più gran parte dei rapporti tributari concernono fattispecie che spesso si iterano nella dimensione temporale del periodo di imposta.

Nella controversia che ha dato vita alla sentenza della Corte, per esempio, un avvocato forniva prestazioni professionali, distinte e reiterate, e collocate in diversi periodi di imposta. L’avvocato, messo alle strette dall’obiezione secondo cui non si vedeva perché mai la sua attività non potesse essere considerata economica, si rifugiava a eccepire un precedente giudicato, a lui favorevole, ottenuto quanto a certe altre operazioni precedenti, che erano state ritenute non imponibili assumendo che un avvocato non fosse un soggetto IVA. Egli eccepiva che tale decisione precedente, su altre sue operazioni, avvenute anni prima, precludesse ulteriori giudizi sul tema dell’assoggettamento a IVA della sua attività e gli attribuisse, definitivamente, lo status di non soggetto IVA per sempre.

Ora, una cosa appare evidente. Il giudicato ha una portata propria, che corrisponde alla sua funzione propria. Impedire il reiterarsi del giudizio sulla medesima fattispecie. In questo caso, il punto di equilibrio (tra certezza ed economia da un lato, e accuratezza dall’altro) è sicuro: la medesima fattispecie non la si giudica più di una volta. Ma vi è una evidentissima differenza tra il caso in cui la fattispecie sia una e i giudizi più di uno (quella appena considerata) e quella, del tutto diversa, in cui vi siano più giudizi per più fattispecie, non importa quanto simili o financo identiche.

Anche in questa seconda ipotesi esiste una innegabile “tensione” alla uniformità (se le questioni sono uguali, perché deciderle diversamente?), ma tale “tensione” non si fonda tecnicamente, a nostro avviso, sull’istituto del giudicato in senso proprio, ma su altre esigenze, apprezzabili (prevedibilità della decisione, coerenza dell’ordinamento, ecc.) e potrebbe trovare efficace tutela, ricorrendone i presupposti, in altri istituti, quale quello, largamente sottoutilizzato, della tutela dell’affidamento.

Tecnicamente, non si dovrebbe allora trattare di giudicato esterno in senso proprio, ma di richiami alla forza – sicuramente persuasiva, e, nei casi di affidamento, anche giuridicamente direttamente rilevante –del precedente giudiziale su un caso, identico, magari tra le stesse parti.

Nella prassi, come artificio retorico, agenzie e difensori delle parti private, per enfatizzare il peso del motivo, presentano usualmente questo argomento come eccezione di giudicato (che avrebbe forza giuridica cogente) cercando di far valere il peso della precedente pronuncia. Qualcosa di simile a quanto accade nel processo civile, ove il convenuto che sostenga di non essere debitore, traveste spesso la sua difesa nel merito nella forma, del tutto diversa, della eccezione di “difetto di legittimazione passiva”, che, come noto, è tutt’altro (vizio di prospettazione della domanda e non difetto del suo fondamento nel merito).

Questo, se è comprensibile nella dialettica processuale, comporta però un pericoloso “slittamento dei concetti” che rischia di compromettere la corretta comprensione delle categorie dogmatiche, con possibili conseguenze dannose.

Come nel processo oggetto della sentenza, dove l’eccezione, del tutto fuori segno (almeno alla luce delle nostre categorie giuridiche), dell’avvocato rumeno ha messo in discussione il concetto di giudicato esterno e comportato il rischio di una sua compromissione nel diritto eurounitario.

Rischio che non si è concretizzato nella sentenza, che è scandita nei seguenti passaggi:

– Il giudicato corrisponde a un valore riconosciuto dalla UE (certezza e, aggiungerei, economia delle risorse giurisdizionali);

– Il giudicato, che impedisce la reiterazione dello stesso processo (cioè, processo sullo stesso fatto) non può però essere il pretesto per ripetere errori (di diritto UE) in processi diversi (cioè su fatti distinti, anche se identici);

– Ove un ordinamento nazionale estenda la portata del giudicato esterno anche a processi diversi (cioè a nuove fattispecie, ancorché identiche), tale nozione di giudicato può ledere il diritto eurounitario, se il precedente giudicato lo violava.

La regola si potrebbe anche esprimere in questo modo: esiste un giudicato esterno proprio (nel caso di nuovo processo sulla stessa fattispecie) e, se vogliamo dargli un nome, uno pseudogiudicato esterno (a mio avviso, fattispecie estranea alla nozione, nel caso di richiamo a una fattispecie ulteriore ma identica, ove il riferimento al giudicato in realtà nasce come artificio retorico): per chi opini diversamente esso potrebbe definirsi “giudicato esterno in senso lato”). Ebbene, per la Corte, il secondo vincolo, per gli Stati che eventualmente lo riconoscano, potrebbe ledere il diritto della Unione.

Se tutto quanto precede è corretto, la sentenza risulta di estrema importanza, ma non perché essa limiti l’efficacia del giudicato esterno e neppure perché introduca un regime speciale nella materie armonizzate.

Non è vera la prima affermazione perché, se si maneggia in maniera rigorosa lo strumentario tecnico, la sentenza ammonisce a non estendere il vincolo del giudicato a situazioni estranee, ove le ragioni della ponderazione tra certezza e correttezza della decisione non sussistono nello stesso modo (è diverso decidere due volte la stessa causa – unica – o due cause identiche).

Non è vera la seconda, perché quel vincolo da pseudogiudicato non deve valere manco nelle materie interne: anche per il diritto interno si tratta di cose diverse e per le quali non vale la stessa ponderazione tra certezza e giustizia.

Se vogliamo un po’ forzare i concetti, exempli causa, si potrebbe spostare il ragionamento nel territorio della bioetica. Ammesso che Tizio si presti ad aiutare il suicidio dei malati terminali in condizioni di disperata sofferenza e venga processato, prima per la morte di Caio e, poi, per quella di Sempronio, nessuno si sognerebbe, credo, di evocare il giudicato di assoluzione rispetto all’aiuto al suicidio di Caio, nel diverso processo per la morte di Sempronio.

Non ostante le situazioni penalistiche evocate appaiano diverse, non lo sono, almeno non lo sono nell’essenziale. Domandarsi se l’avvocato rumeno avesse fatto operazioni imponibili o no nel 2011 non è la stessa cosa che domandarsi se fossero imponibili le operazioni (sempre di quell’avvocato e del tutto identiche) del 2014: sono processi su fattispecie distinte, anche se identiche e quindi non vi può essere alcun giudicato, in senso proprio.

Tutto a posto, quindi?

No, in realtà manca la precisazione più importante, per la pratica del diritto tributario.

Essa corrisponde al necessario inquadramento della rilevanza del periodo di imposta, nella determinazione della fattispecie oggetto del giudizio.

Il periodo di imposta, infatti, spesso è il “confine della fattispecie”, ma non sempre.

Lo è certamente se si discute del reddito o di qualsiasi presupposto di imposta del periodo (il reddito del 2019 è un fatto diverso dal reddito del 2018).

Ma esistono anche, e non possono essere trascurate, fattispecie tributarie uniche con effetti giuridici pluriennali (oppure fattispecie di durata la cui dimensione temporale non è dalla legge tributaria condizionata a una verifica di periodo).

Sono due cose completamente diverse: nella prima il periodo è il limite che individua le fattispecie, nella seconda il periodo è, cosa completamente diversa, la scansione in cui si ribaltano gli effetti della fattispecie, unica (o si protrae la fattispecie durevole).

Non sarebbe, quindi, a mio modestissimo avviso, corretto generalizzare la regola affermando, tout court, che il giudicato tributario non si può ribaltare su altri periodi di imposta.

Dipende.

Dipende da cosa era oggetto del giudicato: una fattispecie che si esaurisce nel periodo o no?

La precisazione è, praticamente, importantissima.

Facciamo due esempi di fattispecie unica con effetti giuridici pluriennali.

In materia di ammortamenti (cioè quote in cui può essere suddivisa la deduzione del costo complessivo per un bene che dura più anni) una cosa è discutere dell’ammontare del costo complessivo. Se oggetto della controversia è stato quello, direttamente o indirettamente, il giudicato sul costo complessivo è un giudicato che si ribalta necessariamente su tutti gli eventuali successivi processi aventi ad oggetto le singole quote di ammortamento (per dirla semplice, una volta stabilito definitivamente quanto è grossa la torta, non lo si può rimettere in discussione ogni volta che si litighi a proposito di una fetta…). Se, invece, oggetto della questione è.. per restare alla metafora, una fetta (i criteri di determinazione della singola fetta, non, neppure indirettamente, la torta), il giudicato su una fetta (una quota) non si estende, mi pare alle controversie sulle altre fette (le altre quote). Ma se nel processo in giudicato era stata statuita la dimensione della torta, questa resta ferma per tutte le annualità diverse.

In materia di detrazioni, invece, se scende il giudicato sulla spettanza di una detrazione da imposta (per esempio assumendo che determinati lavori di ristrutturazione sono stati effettivamente meritevoli di detrazione) la spettanza della detrazione deve restare ferma per tutti i periodi successivi: unica fattispecie, effetto di giudicato.

Ciò posto, al giurista tributario sovverrebbe una ulteriore sollecitazione e cioè domandarsi se le stesse considerazioni dovrebbero valere anche – non per il giudicato ma – per i provvedimenti amministrativi definitivi. Riconosciuto in via definitiva dalla Agenzia delle entrate che una detrazione spetta, ne potrebbe essere messa in discussione la spettanza, quanto alla rata di un periodo diverso?

Profilo intrigante, ma estraneo all’oggetto delle presenti riflessioni.

Resta però fermo che dalla sentenza in rassegna della Corte di Giustizia è arrivato uno stimolo di grande valore concettuale e pratico, da mettere certamente a frutto nel modo ponderato ed equilibrato che essa suggerisce.

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